7 ott 2022 In ipotesi di trasferimento d’azienda, ove venga accertata l’invalidità della cessione il trasferimento non si compie e il rapporto di lavoro resta nella titolarità dell’originario cedente. Il principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con l’ ordinanza del 4 ottobre 2022, n. 28824.
Un lavoratore, a seguito di declaratoria giudiziale di nullità della cessione del contratto di lavoro alla società cessionaria, otteneva in primo grado la condanna della società cedente al risarcimento del danno, pari al trattamento economico che lo stesso avrebbe dovuto percepire come dipendente, in ragione della prosecuzione del rapporto di lavoro con la cedente. La sentenza veniva, tuttavia, ribaltata dal giudice di appello che, a fondamento della sentenza di rigetto della pretesa del lavoratore, rilevava la circostanza che lo stesso aveva stipulato con la cessionaria un accordo transattivo in base al quale aveva accettato l’erogazione di un incentivo all’esodo, avendo raggiunto i requisiti pensionistici.
Il ricorso proposto dal lavoratore per la cassazione della sentenza d’appello è stato accolto dalla Suprema Corte la quale ha ricordato che soltanto un legittimo trasferimento d’azienda comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resti unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi; circostanza, quest’ultima, che ricorre solo il presenza dei presupposti di cui all’art. 2112 cod. civ. che consente la sostituzione del contraente senza consenso del ceduto.
L’ unicità del rapporto viene invece meno qualora, come nel caso in questione, il trasferimento sia stato dichiarato invalido. Nel caso in cui, dunque, venga accertata l’invalidità della cessione, il rapporto con il destinatario della stessa deve considerarsi instaurato in via di mero fatto, con la conseguenza che le vicende risolutive dell’ultimo rapporto sono inidonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora esistente con il cedente. In tale ipotesi il trasferimento non si compie e il rapporto di lavoro resta nella titolarità dell’originario cedente.
Pertanto, in caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa.
Inoltre, con riguardo alla risoluzione consensuale del rapporto con la cessionaria, i Giudici di legittimità hanno precisato che la transazione col terzo cessionario è res inter alios acta; non è, di contro, condivisibile l’argomentazione secondo cui, avendo dato le dimissioni dalla cessionaria, il lavoratore avrebbe fatto cessare quello stesso ed unico rapporto lavorativo che prima aveva con la cedente. Tale assunto si baserebbe, difatti, sull’erroneo presupposto dell’esistenza fra cedente, cessionario e lavoratori ceduti di un inscindibile rapporto plurisoggettivo che, alla luce di quanto specificato, deve invece ritenersi escluso.